Tre o quattro famiglie in un villaggio di campagna

Una Jane Austen che diventa una editor per la nipote Anna, con complimenti, critiche e consigli su un manoscritto che non vedrà mai la luce ma ci darà la possibilità di sapere, direttamente dalla sua voce e non solo attraverso le sue opere, quali fossero le sue idee sulla scrittura di un romanzo.

 

L’articolo originale è apparso sulla rivista di Jane Austen Society of Italy “Due pollici d’avorio”, numero 10 (2018), pagg. 142-152. Per richiedere l’intero numero, scrivere a info@jasit.it.


Le lettere di Jane Austen sono una miniera dalla quale è possibile estrarre un gran numero di gemme di natura diversa. Ci troviamo elementi per ricostruire gran parte del suo carattere, per conoscere in modo diretto molte vicende della sua vita, per avere i suoi giudizi sull’ambiente e le persone che frequentava e, non ultimo, siamo in grado, da riferimenti diretti o indiretti, di renderci conto di quali fossero le sue idee sulla scrittura.
È proprio di quest’ultimo aspetto che voglio parlare in questo articolo, lasciando gran parte dello spazio alle sue parole, non solo dal suo epistolario ma anche dalle sue opere; anche in queste ultime, infatti, si possono trovare brevi incisi in cui l’autrice interviene direttamente come narratrice o fa parlare uno dei personaggi su questioni che riguardano il modo di scrivere e di leggere.

Le lettere nelle quali è possibile rintracciare il materiale più abbondante sono sicuramente le due indirizzate alla nipote Anna Austen (che poco dopo diventerà Mrs. Lefroy, dopo aver sposato Benjamin Lefroy, cugino di quel Tom che diciotto anni prima era stato il primo flirt della zia) nel settembre del 1814, dopo che la nipote le aveva inviato il manoscritto di un romanzo che stava scrivendo, e che non vide mai la luce.

Anna Austen

“Zia Jane” prese molto sul serio il suo ruolo di giudice letterario, e non si limitò a giudizi generali sul lavoro della nipote, ma mise in evidenza molti elementi narrativi che ci aiutano a capire quali fossero le sue idee sulle modalità di scrittura di un romanzo.

Vediamo dunque che cosa scrisse Jane Austen in queste due lettere, che potete leggere integralmente nel sito austeniano da me curato (jausten.it).
La prima è la numero 107, scritta dal 9 al 18 settembre 1814. dove, in una sorta di approfondito lavoro di editing, troviamo molti suggerimenti, soprattutto di natura pratica. C’è una considerazione sulla necessità di precisare meglio i motivi di una scelta che, considerando la situazione del personaggio, appare poco opportuna:

Non ci piace che Mrs F. si sistemi come Affittuaria e Vicina di casa di un Uomo come Sir T. H. senza avere altri stimoli per stabilirsi là; dovrebbe avere qualche amicizia da quelle parti per invogliarla. Una donna che, con due ragazze poco più che adolescenti, va in una Zona dove non conosce nessuno tranne un Uomo con una reputazione non molto buona, è una leggerezza che probabilmente una donna così prudente non commetterebbe mai.

C’è poi una breve osservazione, attribuita a Mrs. Austen, sui tempi giusti per ricambiare una visita, cosa che, come tutte le convenzioni sociali dell’epoca, prevedeva regole abbastanza rigide, anche se poi non sempre seguite:

Tua Nonna è rimasta più turbata dal fatto che Mrs. F. non ricambi più in fretta la visita degli Egerton, che da qualsiasi altra cosa. Avrebbero dovuto far visita alla Canonica prima di domenica.

Troviamo poi consigli sulla necessità di non perdersi in lungaggini poco funzionali allo scorrere della narrazione, con inviti a tagliare e ridurre particolari superflui:

Il luogo che descrivi è ameno, ma le tue descrizioni sono spesso più minuziose di quanto possa piacere. Fornisci troppi particolari a destra e a manca. […] Spero che quando avrai scritto un bel po’ di più sarai capace di tagliare qualcosa delle parti precedenti. – La scena con Mrs Mellish la taglierei; è banale e non c’entra niente – e, in verità, più troverai la forza di ridurre tra Dawlish e Newton Priors, meglio sarà.

 ma anche a non tentare di scrivere su cose che non si è in grado di conoscere bene:

Riteniamo che faresti meglio a non lasciare l’Inghilterra. Lascia che i Portman vadano in Irlanda, ma dato che tu non sai nulla delle Usanze di laggiù, faresti meglio a non andare con loro. Correresti il pericolo di fare descrizioni inesatte. Resta fedele a Bath e ai Forrester. Là sarai a casa tua.

La lettera, infine, contiene anche una delle frasi più citate dell’epistolario di Jane Austen, una frase che descrive in modo conciso ma estremamente efficace quelle che oggi chiameremmo le location dei suoi romanzi:

Ora stai radunando i tuoi Personaggi in modo delizioso, mettendoli esattamente in un posto che è la delizia della mia vita; – 3 o 4 Famiglie in un Villaggio di Campagna è la cosa migliore per lavorarci su.

In questi esempi leggiamo direttamente dalla penna dell’autrice la caratteristica sempre associata alle opere di Jane Austen, ovvero la sua capacità di dare forza e interesse alla vita reale del suo ambiente sociale, nei luoghi in cui viveva e con le convenzioni che ne regolavano il corso, convenzioni che cadono spesso sotto la scure della sua arguzia e della sua ironia, ma che non possono essere ignorate. Questa caratteristica, che in apparenza la confina a un ambiente e a un tempo ormai spariti, si unisce alla sua capacità di rendere quel mondo universale e senza tempo, in quanto popolato da personaggi nei quali siamo in grado di rispecchiarci, con sentimenti e comportamenti che superano il tempo e lo spazio.
È una qualità che qualcuno ha attribuito soprattutto alle scrittrici più che agli scrittori, come possiamo leggere in un articolo di Henry James su Anthony Trollope:

Il suo grande, inestimabile merito è stato di possedere una completa comprensione della realtà. Questo dono non è raro negli annali della narrativa inglese, e può essere rintracciato agevolmente in un percorso letterario nel quale la mente femminile ha operato in modo molto proficuo.[1]

con parole molto simili a quelle scritte quasi sessant’anni prima da Walter Scott:

Le donne lo fanno meglio – Edgeworth, Ferrier, Austen hanno tutte elaborato ritratti della società reale, di gran lunga superiori a qualsiasi cosa di pari natura che gli uomini, gli inefficaci uomini, abbiano prodotto.[2]

che qualche giorno prima aveva scritto qualcosa di analogo, stavolta riferito direttamente a Jane Austen:

Letto di nuovo e almeno per la terza volta Orgoglio e pregiudizio, il romanzo così ben scritto di Miss Austen. Questa giovane signora aveva un talento per descrivere la complessità, i sentimenti e i personaggi della vita di tutti i giorni, che per me è il più straordinario che abbia mai conosciuto. Le grandi esplosioni di tensione posso trattarle io stesso come chiunque al giorno d’oggi; ma quel tocco squisito, che rende interessanti le cose e i personaggi di tutti i giorni per la verità della descrizione e dei sentimenti, a me è negato. Che peccato che una creatura così dotata sia morta così giovane![3]

Le parole “quel tocco squisito, che rende interessanti le cose e i personaggi di tutti i giorni”, richiamano alla mente alcuni versi di Emily Dickinson, che in una delle sue poesie più famose descrive così un poeta:

È colui Che
Distilla un senso sorprendente
Da Significati Ordinari –
Ed Essenza così immensa
Da avvenimenti familiari[4]

Ma torniamo ai consigli della “Zia Jane”. Nella lettera successiva alla nipote, la numero 108 del 28 settembre 1814, continuano i giudizi e i dubbi sul comportamento dei personaggi, con suggerimenti molto pratici e concreti su come rendere più plausibili le vicende del romanzo:

Temo che Henry Mellish sia un po’ troppo nell’usuale stile dei Romanzi – un Giovanotto bello, simpatico, ineccepibile (come non ne abbondano nella Vita reale) perdutamente innamorato, e senza speranza. Ma non è affar mio giudicarlo così presto. – Jane Egerton è una Ragazza molto spontanea e senza misteri – e tutta la parte della sua conoscenza con Susan, e della lettera di Susan a Cecilia, molto piacevole e assolutamente in carattere. – Ma Miss Egerton non ci soddisfa del tutto. È troppo formale e solenne, secondo noi, quando consiglia al Fratello di non innamorarsi. […] Che cosa puoi fare con Egerton per renderlo più interessante? Vorrei che tu potessi escogitare qualcosa, qualche avvenimento familiare per far risaltare meglio le sue buone qualità – un qualche problema per un Fratello o una Sorella da aiutare vendendo la sua Curazia – qualcosa che lo porti via misteriosamente, per poi venire a sapere che è a York o a Edimburgo, con un vecchio Cappotto. – Non ti raccomanderei seriamente qualcosa di Improbabile, ma se ti riuscisse di inventare qualcosa che lo vivacizzi, avrebbe un effetto positivo. – Potrebbe prestare tutti i suoi Soldi al Cap. Morris – ma in quel caso sarebbe uno sciocco se lo facesse. I Morris non potrebbero litigare, e lui farli riconciliare? – Scusami la libertà che mi prendo con questi suggerimenti.

Ma la censura più severa, e insieme più divertente, riguarda l’uso di un’espressione che JA assegna senza appello a un “gergo romanzesco” (“novel slang”) trito e ritrito, tanto da risultare ormai insopportabile:

Che Devereux Forester vada in rovina a causa della sua Vanità va benissimo; ma vorrei che non lo facessi precipitare in un “vortice di Dissipazione”. Non ho obiezioni sulla Cosa in sé, ma l’espressione non la sopporto; – è talmente in gergo romanzesco – e così vecchia, che immagino che Adamo vi si sia imbattuto nel primo romanzo che ha aperto.

Su questo “gergo romanzesco” una piccola curiosità: l’espressione “vortex of dissipation” è citata nell’Oxford English Dictionary (alla voce “Vortex” – 5/b) da un racconto del 1802 di Maria Edgeworth: Moral Tales: Breakfast: “I feel that I cannot be at ease in the vortex of dissipation” (“Sento di non essere a mio agio nel vortice della dissipazione”), dove le due parole si ripetono tre volte in poche righe. Non è escluso che Anna Austen l’avesse presa proprio da questa autrice, letta sicuramente da Jane Austen e presumibilmente anche dalla nipote.

Sull’uso poi di espressioni un po’ banali e buone a tutti gli usi Austen ha fatto parlare anche qualche suo personaggio. In L’abbazia di Northanger, per esempio, Catherine Morland usa il termine “nice” riferito a I misteri di Udolpho, e Henry Tilney, un po’ sul serio e un po’ prendendosi benevolmente gioco di lei, critica l’uso di quel termine così generico:

“Di certo”, esclamò Catherine, “non intendevo dire nulla di sbagliato; ma è un bel libro, e perché mai non dovrei definirlo così?”
“Verissimo”, disse Henry, “e questa è una bella giornata, e noi stiamo facendo una bellissima passeggiata, e voi siete due bellissime fanciulle. Oh! È davvero una bellissima parola! va bene per tutto. Forse in origine era usata solo per definire ciò che è ben fatto, appropriato, delicato o raffinato; la gente era bella nel modo di vestirsi, nei sentimenti, nelle scelte. Ma adesso ogni elogio su qualsiasi argomento è ristretto a quell’unica parola.”[5]

In Orgoglio e pregiudizio è Mrs. Gardiner che, parlando di Mr. Bingley e Jane con la nipote Elizabeth, giudica troppo trita indefinita un’espressione usata da quest’ultima:

“Non succede spesso che l’ingerenza di amici riesca a convincere un giovanotto economicamente indipendente a non pensare più a una ragazza, della quale si era ardentemente innamorato solo poche settimane prima.”
“Ma l’espressione «ardentemente innamorato» è così trita, così dubbia, così indefinita che mi dice ben poco. È applicata tanto a sentimenti nati solo dopo una mezzora di conoscenza, quanto a un affetto solido e reale. Dimmi, quanto era ardente l’amore di Mr. Bingley?”[6]

Molto diverse sono le indicazioni letterarie che troviamo in un gustoso carteggio che Jane Austen intrattenne con il bibliotecario del principe reggente, il futuro Giorgio IV. Durante un soggiorno dell’autrice a Londra, nel periodo immediatamente precedente alla pubblicazione di Emma, il fratello Henry, del quale era ospite, si ammalò abbastanza gravemente, e sembra che uno dei dottori che lo curarono fosse anche uno dei medici del principe. Henry, lo sappiamo da alcuni accenni nelle lettere della sorella, non era molto discreto, e probabilmente si lasciò sfuggire che quella sorella che lo assisteva era l’autrice dei tre romanzi usciti prima di Emma. Per farla breve, il principe, che era un estimatore dell’autrice (recentemente è stata scoperta nell’archivio del castello di Windsor una ricevuta che comprova l’acquisto di Sense and Sensibility per 15 scellini il 28 ottobre 1811, ovvero due giorni prima della pubblicazione ufficiale del romanzo[7]) incaricò il suo bibliotecario, il reverendo James Stanier Clarke, di invitarla nella sua residenza, Carlton House, e di comunicarle che avrebbe accettato di essere il dedicatario del prossimo romanzo che avrebbe pubblicato. Jane Austen non ne fu sicuramente entusiasta, visto che, detestava cordialmente il principe reggente, ma il fratello, e probabilmente anche l’editore, le fecero capire che quella cortese concessione doveva essere interpretata come un ordine, e quindi Emma fu pubblicato con una fiorita dedica al futuro re britannico.

Ricevuta dell’acquisto di Sense and Sensibility

La parte che ci interessa qui è però, come dicevo all’inizio, il carteggio con il bibliotecario che seguì l’incontro a Carlton House, al quale non era ovviamente presente il principe, che aveva già fatto fin troppo consentendo all’oscura scrittrice di intrattenersi con un suo dipendente. Clarke aveva evidentemente ambizioni di consigliere letterario, e in una lettera del 16 novembre 1815 scrisse:

E desideravo anche cara Signora avere il permesso di chiedervi di descrivere in un qualche futuro Lavoro le Abitudini di Vita, il Carattere e l’entusiasmo di un Ecclesiastico – che dovrebbe passare il suo tempo tra la metropoli e la Campagna […] un Ecclesiastico inglese, almeno dei giorni nostri – Amante, e interamente votato alla Letteratura – con nessun Nemico se non se stesso. Vi prego cara Signora, pensateci.

Si può facilmente immaginare il divertimento di Jane Austen nel leggere questo consiglio, al quale rispose, solo dopo quasi un mese, con parole palesemente ironiche, dipingendosi come “la Donna più illetterata, e disinformata che abbia mai osato diventare un’Autrice”:

Sono altamente onorata per essere da voi ritenuta in grado di ritrarre un Ecclesiastico del genere di quello da voi abbozzato nel vostro biglietto del 16 nov. Ma vi assicuro che non lo sono. Del lato comico del Carattere potrei essere all’altezza, ma non di quello Buono, Fervente, Colto. La Conversazione di un Uomo del genere deve a volte vertere su argomenti di Scienza e Filosofia dei quali non so nulla – o almeno deve di tanto in tanto abbondare in citazioni e allusioni che una Donna, che come me, conosce solo la propria Madrelingua e ha letto pochissimo anche in quella, sarebbe totalmente incapace di riportare. Un’Istruzione Classica, o in ogni caso, una conoscenza molto estesa della Letteratura Inglese, Antica e Moderna, mi sembra assolutamente Indispensabile per una persona che voglia rendere giustizia al vostro Ecclesiastico – E io credo di potermi vantare di essere, con tutta la possibile Presunzione, la Donna più illetterata, e disinformata che abbia mai osato diventare un’Autrice.[8]

Dobbiamo però presumere che Clarke fosse totalmente incapace di cogliere quell’ironia, visto che pochi giorni dopo tornò alla carica, stavolta aggiungendo una connotazione biografica:

Vi prego di continuare a scrivere, e di farvi mandare da tutti i vostri amici dei Bozzetti per aiutarvi – e Memoires pour servir – come li chiamano i francesi. Dateci un Ecclesiastico inglese secondo la vostra fantasia – possono essere introdotte molte novità – mostrate cara Signora quante cose buone deriverebbero dalla totale abolizione delle Decime, e descrivetelo mentre seppellisce la madre – come ho fatto io – poiché il Titolare della Parrocchia in cui morì – non tributava ai suoi resti il rispetto dovuto. Non mi sono mai ripreso dal Colpo. Portate il vostro Ecclesiastico in Mare come Amico di un qualche Personaggio famoso della Marina vicino a una Corte – potreste allora introdurre come Le Sage molte Scene interessanti su Personaggi e Interessi.[9]

A questa lettera Jane Austen, per quanto ne sappiamo, non rispose, e Clarke, nel marzo dell’anno successivo, pensò bene di cambiare genere, proponendole di scrivere un romanzo storico:

Il Principe Reggente ci ha appena lasciati per Londra; e poiché si è compiaciuto di nominarmi Cappellano e Segretario particolare inglese del Principe di Cobourg, resterò qui con Sua Altezza Serenissima e un Gruppo scelto di ospiti fino al Matrimonio. Forse quando darete nuovamente qualcosa alle stampe potreste dedicare i vostri volumi al Principe Leopold: un Romanzo Storico che illustri la Storia dell’augusta casa di Cobourg, in questo momento susciterebbe molto interesse.[10]

James Stanier Clarke

La risposta a questo ennesimo tentativo di consiglio letterario fu formalmente cortese come la precedente, ma l’autrice calcò un po’ la mano, e il bibliotecario forse stavolta capì, visto che non risultano altre lettere tra i due:

Siete molto, molto gentile nei vostri suggerimenti circa il tipo di Componimento che al momento potrebbe portarmi a dei riconoscimenti, e io sono pienamente consapevole che un Romanzo Storico, basato sulla Casa di Saxe Cobourg potrebbe servire molto di più a raggiungere Profitti o Popolarità, rispetto ai ritratti di Vita domestica in Villaggi di Campagna di cui mi occupo io – ma non potrei mai scrivere un Romanzo Storico più di quanto potrei farlo con un Poema Epico. Non potrei mettermi a scrivere un Romanzo serio per qualunque altro motivo se non quello di salvarmi la Vita, e se fosse indispensabile farlo e non lasciarmi mai andare a ridere di me stessa o degli altri, sono certa che mi impiccherei prima di aver terminato il primo Capitolo. – No – devo mantenere il mio stile e andare avanti a Modo mio; E anche se non dovessi mai avere successo in quello, sono convinta che fallirei totalmente in qualunque altro.[11]

Al di là dell’ironia e dell’arguzia di queste risposte a Clarke, la lezione che se ne può trarre riguarda la piena consapevolezza della scrittrice circa le qualità e i meriti delle proprie opere e del proprio ambito di lavoro letterario, consapevolezza che non si sarebbe certo lasciata ingannare dai non troppo larvati tentativi di Clarke di solleticare la sua ambizione. È interessante notare come queste parole di Jane Austen riecheggino qualche decennio dopo in una scrittrice molto diversa, che non ne apprezzava troppo le opere. Si tratta di Charlotte Brontë, e sono parole che troviamo in un carteggio in cui la scrittrice dello Yorkshire esprimeva la propria opinione circa l’autrice che l’aveva preceduta, prima con una rivendicazione molto simile del proprio modo di scrivere:

Se mai dovessi scrivere un altro libro, credo che non ci sarà nulla di quello che voi chiamate “melodramma”; credo, ma non ne sono certa. Credo anche che mi sforzerò di seguire il consiglio che brilla dai “miti occhi” di Miss Austen: “rifinire di più ed essere più controllata”; ma nemmeno di questo ne sono certa. Quando gli autori scrivono al loro meglio, o almeno quando scrivono in modo molto scorrevole, sembra come se in loro si risvegli un impulso che diventa la loro guida, che prenderà la sua strada, mettendo fuori gioco tutto ciò che gli è estraneo, dettando certe parole, e insistendo nel fargliele usare, che siano per loro natura veementi o misurate, modellando personaggi nuovi, dando risvolti impensati agli avvenimenti, rigettando vecchie idee accuratamente elaborate, e creandone e adottandone all’improvviso di nuove. Non è così? E dovremmo forse cercare di contrastare questi impulsi? Siamo davvero in grado di contrastarli?

e poi, dopo aver elogiato, con qualche riserva, un romanzo del suo corrispondente, con una frase:

per scrivere così è necessario aver visto e conosciuto moltissimo, e io ho visto e conosciuto pochissimo.[12]

che non può non richiamare alla mente quella scritta da Austen nella prima lettera a Clarke: “la Donna più illetterata, e disinformata che abbia mai osato diventare un’Autrice.”

Nelle sue lettere Jane Austen fa talvolta riferimento a qualche suo romanzo, ma il brano forse più significativo rispetto a quanto ho cercato di evidenziare in questo articolo è in una lettera alla sorella Cassandra del 4 febbraio 1813, qualche giorno dopo la pubblicazione di Orgoglio e pregiudizio:

Tutto sommato comunque mi sento discretamente fiera e discretamente soddisfatta. – L’opera è un po’ troppo leggera, brillante, frizzante; – le manca un po’ d’ombra; – avrebbe bisogno di essere allungata qui e là con qualche lungo Capitolo – pieno di buonsenso se fosse possibile, o altrimenti di solenni e speciose sciocchezze – su qualcosa di scollegato alla trama; un Saggio sulla Scrittura, un’analisi critica su Walter Scott, o sulla storia di Bonaparte – o qualsiasi altra cosa che possa fare da contrasto e riportare il lettore con un piacere ancora maggiore al brio e allo stile Epigrammatico che la caratterizza. – Dubito sul tuo pieno accordo con me su questo punto – conosco le tue rigide Convinzioni.

Qui troviamo la solita divertita ironia dell’autrice, ma anche una scherzosa critica alle frequenti divagazioni che interrompono la narrazione e sembrano avere l’unico scopo di accrescere le dimensioni del libro. Una considerazione che fa il paio con quella, riportata sopra, rivolta alla nipote Anna: “Il luogo che descrivi è ameno, ma le tue descrizioni sono spesso più minuziose di quanto possa piacere. Fornisci troppi particolari a destra e a manca.”

Non si può concludere un articolo che cerca di far parlare direttamente Jane Austen sul suo mestiere di scrittrice, un articolo che appare per giunta in una rivista che si chiama “Due pollici d’avorio”, senza citare una delle sue più famose affermazioni in proposito, contenuta in una lettera al nipote James Edward, il suo futuro biografo, che non riusciva più a trovare “due capitoli e mezzo” del romanzo che stava provando a scrivere. La zia si difende scherzosamente dall’eventuale accusa di essere la ladra del prezioso manoscritto, e dice al nipote:

Che cosa me ne farei dei tuoi Abbozzi robusti, virili, ardenti, pieni di Varietà e di Fuoco? – Come potrei abbinarli al pezzettino di Avorio (largo due Pollici) sul quale lavoro con un Pennello talmente fine, che produce un effetto minimo dopo tanta fatica?[13]

Una frase che sembra quasi alla base di un giudizio espresso da Walter Scott nella famosa recensione a Emma:

La conoscenza che l’autrice ha del mondo, e la peculiare delicatezza con cui presenta personaggi che il lettore non può mancare di riconoscere, ci riporta alla mente alcune delle qualità della scuola di pittura fiamminga. I soggetti spesso non sono eleganti, e sicuramente mai grandiosi; ma sono modellati sulla natura, e con una precisione che delizia il lettore.[14]

Il brano della lettera e le parole di Walter Scott sono descrizioni perfette del metodo di lavoro di Jane Austen: un cesellare la realtà mettendone in luce i fatti più comuni e ordinari, attraverso la precisione di una scrittura che richiede una lettura attenta e ripetuta, l’unica che può farne emergere tutta la ricchezza, come scrisse Giuseppe Tomasi di Lampedusa nelle pagine che le dedicò nella sua Letteratura inglese:

La Austen è uno di quegli scrittori che richiedono di esser letti lentamente: un attimo di distrazione può far trascurare una frase che ha un’importanza primaria: arte di sfumature, arte ambigua sotto l’apparente semplicità.[15]


Note

[1] Henry James, “Anthony Trollope”: The Century Illustrated Monthly Magazine, New York, XXVI [New Series IV], May 1883 to October 1883, July 1883, p. 386 (“His great, his inestimable merit was a complete appreciation of the reality. This gift is not rare in the annals of English fiction; it would naturally be found in a walk of literature in which the feminine mind has laboured so fruitfully.”)
[2] The Journal of Walter Scott 1825-32, Edinburgh, David Douglas 1910, p. 164 – 28 March 1826 (“The women do this better – Edgeworth, Ferrier, Austen have all had their portrait of real society, far superior to any thing Man, vain Man, has produced of the like nature.”)
[3] Ivi, p. 155 – 14 March 1826 (“Also read again, and for the third time at least, Miss Austen’s very finely written novel of Pride and Prejudice. That young lady had a talent for describing the involvements and feelings and characters of ordinary life, which is to me the most wonderful I ever met with. The Big Bow-wow strain I can do myself like any now going; but the exquisite touch, which renders ordinary commonplace things and characters interesting, from the truth of the description and the sentiment, is denied to me. What a pity such a gifted creature died so early!”)
[4] Emily Dickinson, poesia J448/F446, nel sito da me curato: emilydickinson.it/j0401-0450.html.
[5] L’abbazia di Northanger, capitolo 14 (jausten.it/jarcna14.html).
[6] Orgoglio e pregiudizio, capitolo 25 (jausten.it/jarcpap25.html)
[7] New Tork Times, July 24, 2018: www.nytimes.com/2018/07/24/books/jane-austen-prince-regent.html.
[8] Lettera a James Stanier Clarke dell’11 dicembre 1815 (n. 132D).
[9] Lettera di James Stanier Clarke del 21 dicembre 1815 (n. 132A).
[10] Lettera di James Stanier Clarke del 217 marzo 1816 (n. 138A).
[11] Lettera a James Stanier Clarke del 1° aprile 1816 (n. 138D).
[12] Lettera di Charlotte Brontë a George Lewes del 12 gennaio 1848 (vedi: jausten.it/jaindbronte.html).
[13] Lettera a James Edward Austen del 16 dicembre 1816 (n. 146).
[14] Walter Scott, “Recensione a Emma”, The Quarterly Review, ottobre 1815 [pubblicazione: marzo 1816], pp. 188-201 (vedi: jausten.it/jarcemmarecescott.html.
[15] Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Letteratura inglese (1954): “Jane Austen”, in Opere, Mondadori, Milano 1995, p. 982.

L’immagine di copertina (Steventon Rectory, disegno a matita di Ben Lefroy, 1820) è tratta dal sito della Jane Austen’s House (janeaustens.house/jane-austen-a-life).

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