Lo scorso 9 maggio, sulle pagine del Corriere della Sera, Pietro Citati coglie l’occasione dell’uscita della nuova edizione Einaudi di Mansfield Park per riflettere sulla protagonista di tale romanzo, Fanny Price.
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Riletture – «Mansfield Park»: ritorna per la Einaudi uno dei romanzi più potenti e autobiografici della scrittrice inglese. Dal simbolico lieto fine
Fanny o il trionfo della delicatezza
L’eroina di Jane Austen, modello vincente di una vera femminilità
Molti lettori di Jane Austen non amano Mansfield Park, di cui Einaudi pubblica oggi una nuova edizione (traduzione di Luca Lamberti, con un saggio di Roberto Bertinetti, p. 490, 12). A me pare bellissimo. Certo, è molto diverso da Giudizio e sensibilità, Orgoglio e pregiudizio, Emma, Persuasione. In primo luogo, le case abitate dai personaggi sono vaste, massicce, circondate da grandi parchi: ricchi aristocratici sostituiscono i rappresentanti della classe media; mentre l’architettura del romanzo, egualmente grave, aggrondata e massiccia e il ritmo lento e faticoso del racconto ricordano poco l’incantevole levità degli altri libri.
Come in ogni romanzo della Austen, un personaggio femminile si impossessa prepotentemente di lei: la Austen ne adotta il punto di vista e lo sguardo; e di questo sguardo e punto di vista (e del suo colore e della sua musica) imbeve le fondamenta e le apparenze del libro. Qualcuno potrebbe dire, con eccessivo rilievo, che Fanny Price è la proiezione della Austen. Quando appare sulla scena, Fanny è la parente povera adottata per compassione dai ricchi cugini Bertram: piccola, smunta, timida, offesa, esclusa, tremante, terrificata, mal vestita. Tutti, o quasi tutti, la trascurano, la umiliano e la disprezzano. Non fa che pensare alla famiglia abbandonata, e soprattutto all’amatissimo fratello William, lontano per anni, imbarcato su una nave da guerra. Tiene gli occhi bassi, e risponde con un filo di voce, quando non scoppia a piangere. Se mangia, non riesce a inghiottire due bocconi, che già le salgono le lacrime agli occhi. Il solo pensiero di un paio d’occhi fissato su di lei le sembra una cosa terribile. Vive di fantasie, ossessioni, immaginazioni, e nei primi tempi non riesce a cogliere e a giudicare giustamente la realtà e le persone che la circondano. Ogni giorno mette fine alla sua angoscia addormentandosi tra i singhiozzi.
Col passare dei giorni, Fanny esce lentamente dal suo bozzolo doloroso: con un aiuto, quello di Edmund, il cugino di qualche anno più grande di lei. Quando la trova in lacrime seduta sulla scala del solaio, Edmund siede accanto a lei, le chiede di confidarsi, le rivolge dolcemente la parola, la porta tra i bellissimi alberi del parco. Poi, a poco a poco, la educa come un fratello maggiore o come un giovane padre: coltiva la sua profonda passione per la lettura, le consiglia libri, ne discute con lei: le dona una cavalla e la porta con sé a passeggiare; e la difende dagli sguardi e dalle parole malvagie che le rivolge Mrs Norris, una zia mostruosamente chiacchierona e vanesia. Fanny diventa più serena: considera il cugino un esempio di bontà e di magnanimità; gli dedica un’immensa gratitudine e tenerezza; e, senza conoscere ancora il senso di questa parola, lo ama profondissimamente, con quella passione assoluta che solo una schiava può nutrire per il suo adorato signore.
Presto il carattere di Fanny Price prende forma. In quella società di chiacchiere mondane, è la voce dell’anima nascosta, come quella di Mignon nel Wilhelm Meister di Goethe. Mentre gli altri parlano, Fanny si chiude nel silenzio, nel mistero, e discorre soltanto col proprio cuore: mentre gli altri amano vivere in società, lei contempla la natura; le altre donne temono di passare inosservate, e lei teme di attirare l’attenzione e la lode; gli altri recitano, e lei detesta tutto ciò che è gioco e apparenza teatrale; gli altri cambiano, e lei – la fedele – vuole che il tempo resti immobile difendendo l’immobilità del suo cuore; la felicità delle altre donne scintilla ed esplode, mentre la sua è «di un genere tranquillo e profondo, che gonfia il cuore in silenzio». Possiamo dunque dire che Fanny è una proiezione della Austen? Mi sembra troppo, tanto la Austen è lieve, ilare e lieta: ma certo la Austen ha visto in se stessa un lato d’ombra e di silenzio, o almeno una possibilità d’ombra; e attorno a questa possibilità ha costruito il grandioso e straziante personaggio di Fanny Price, il più tragico della sua narrativa.
Alla fine, Fanny splende con i «suoi occhi chiari»: di uno splendore nitido e raffaellesco. Se vogliamo scegliere delle parole per definirla, ne basta una: delicatezza; parola che assume in lei un profondo significato romantico. In primo luogo, la sua delicatezza riguarda la natura. «Ebbe il piacere di vedere Edmund rimanere con lei alla finestra, e di scoprire che ben presto volgeva lo sguardo, come lei, verso il paesaggio, così solenne, placido e consolatore nello splendore di una notte senza nubi e nel contrasto con la profonda oscurità dei boschi. “Quanta armonia!” disse Fanny. “E che pace. È qualcosa che supera ogni quadro e ogni melodia, e solo la poesia può tentare di descriverlo. Qui tutte le inquietudini si placano, il cuore si innalza rapito. Quando guardo una notte come questa, mi pare che al mondo non possano esistere né ingiustizie né dolore, e certo ci sarebbe meno ingiustizia e meno dolore se gli uomini sentissero di più la sublimità della Natura e si lasciassero trasportare fuori di sé dalla contemplazione di una sera come questa».
Attorno a Fanny Price appare ogni forma di delicatezza: riflessi della delicatezza originaria, quella della natura. C’è la delicatezza della poesia, della bellezza sensibile, della memoria: «Se c’è una delle nostre facoltà naturali che si possa dire più miracolosa delle altre, credo che sia la memoria. C’è qualcosa di più misterioso e incomprensibile nel potere, nelle lacune, nelle discrepanze della memoria che nelle altre facoltà dell’intelletto». C’è la non meno misteriosa delicatezza del cuore: quell’ineffabile tatto dei sentimenti che va dall’amicizia all’amore fraterno, all’amore per i genitori adottivi, alla passione amorosa; tatto che Fanny Price possiede con intensità superiore a quella di tutti gli altri personaggi della Austen. La delicatezza è una qualità rarissima; e Fanny sa che è necessaria tenacia e una specie di durezza per portarla sino al grado estremo della perfezione.
Verso la fine del grande romanzo, Fanny diventa più bella, con una pelle morbida, spesso tinta di rossore: con gli occhi e la bocca profondamente espressivi. Si accorge di essere amata, e questa consapevolezza la rende ancora più graziosa, e la porta addirittura alla felicità e alla esaltazione, «stato d’animo che non aveva mai conosciuto». Diventa più intelligente: persino di Edmund, il suo maestro. Non aveva mai adorato tanto Mansfield Park: i suoi abitanti, le abitudini, l’eleganza, il contegno, l’ordine, l’armonia, e sopratutto la tranquillità e la pace. «A Mansfield non si udiva mai un diverbio, né un tono di voce troppo alto, né un improvviso scoppio di ira, né un passo pesante: tutto seguiva un flusso di regolare quiete». Quando Fanny è lontana, il suo cuore è pieno di nostalgia, desiderio e struggimento. Così diventa una specie di sacerdotessa di Mansfield Park, e difende la sua quiete ed eleganza contro i suoi stessi abitanti, una parte dei quali ne è diventata indegna, e lo salva dalla decadenza e dalla rovina.
Questa condizione coincide con il matrimonio di Fanny e di Edmund: sposandosi, essi garantiscono e in certo modo rendono immortali l’antica casa e il grande parco. Il matrimonio è un rapidissimo lieto fine: pochissime pagine ardenti; credendo di amare Mary Crawford, in realtà Edmund aveva amato la sua fragile e tenacissima cugina, e ora cancella il suo errore e abbraccia chi l’aveva adorato in silenzio per tanti anni.
Come negli altri romanzi, anche in Mansfield Park la Austen teme la monotonia. Non c’è rischio che Giudizio e sensibilità assomigli troppo a Elinor? E Orgoglio e pregiudizio a Elizabeth? E Mansfield Park a Fanny? Così accosta al personaggio principale un doppio, anch’esso femminile ? il quale le è opposto per natura, temperamento e destino. Conquista una doppia ottica: orchestra una doppia partitura; con meravigliosi effetti musicali e pittorici di contrasto e di riflesso, alleando la squisita scienza dei suoni e la delicata arte della miniatura.
Il doppio di Fanny Price è Mary Crawford, che abita nella canonica presso la grande casa. Fanny ne è gelosa, perché Edmund fantastica attorno a lei, le fa la corte, crede di amarla e forse la ama. Ma la Austen la adora, almeno nella parte centrale del romanzo: «Una mente vivace, sempre pronta a divertire se stessa e gli altri», e l’incarnazione del fascino femminile. Quale incanto, quale grazia quando Mary suona l’arpa, o va a cavallo; e sopratutto quando conversa, frivola e leggera, e disegna aerei ghirigori di parole, sottili battute, dolci e velenose perfidie; e come è effervescente il suo spirito e irresistibile il suo corteggiamento del mondo. Ma Mary Crawford non possiede la sovrana delicatezza di Fanny: spesso c’è, in lei, una nota acre e stridula. Mentre ama il fascino, la Austen sente quale possibilità di corruzione ci sia in esso: forse la sente perfino in se stessa, e la sente profondamente in Mary, che alla fine si lascia travolgere da questa ombra.
Malgrado l’aspetto massiccio del romanzo, anche per Mansfield Park la Austen avrebbe potuto ripetere una famosa e bellissima frase, certo autoironica: «Il pezzettino d’avorio (lungo due pollici) su cui lavoro con un pennello così fine che, dopo molta fatica, l’effetto è minimo». Quanti «pezzettini d’avorio lunghi due pollici» si raccolgono nel libro! La cosa più divertente e spiritosa è che essi si intrecciano scintillando sopratutto nella conversazione degli stupidi e dei vanesi, ai quali Jane Austen ha sempre dedicato un’immensa gratitudine.
Pietro Citati
9 maggio 2013 – Corriere della Sera – Pagina 38.39
Link utili:
Versione online dell’articolo, sul sito del Corriere della Sera online
Verisone in formato PDF dell’articolo, scaricabile
(Bologna, Italy) – Diplomata Traduttrice e Interprete e laureata in Lingue e Letterature Straniere, ha lavorato come traduttrice e da anni si occupa di marketing e comunicazione aziendale. Il suo maggiore interesse libresco è la letteratura scritta dalle donne. Ha letto Jane Austen per la prima volta a vent’anni (Orgoglio e Pregiudizio). Nel dicembre 2010 ha aperto il blog monografico Un tè con Jane Austen e nel 2013 ha fondato Jane Austen Society of Italy (JASIT), di cui è presidente.
3 commenti
Dopo aver appena finito di leggere il saggio di Anna Paschetto, mi fa uno strano effetto (maschilismo?) vedere definita Fanny Price come “modello vincente di una vera femminilità”, che ama profondissimamente Edmund, con quella passione assoluta che solo una schiava può nutrire per il suo adorato signore. Ma anche Fanny ha dovuto opporre i suoi NO: a sir Thomas, Henry Crawford, e alla fine la sua resistenza è stata premiata.
C’è però qualcosa in questo lieto fine, nella perfezione di lei, che non suscita simpatia o desiderio di immedesimazione, semmai il contrario e proprio queste ombre fanno pensare a quel commento di Jane: “i ritratti della perfezione mi danno la nausea”:
Il tuo “strano effetto”, Romina, è lo stesso che ho provato nel leggere questo articolo.
Del resto, anche il romanzo mi fa sempre “uno strano effetto”. La prima volta rimasi interdetta: i no di Fanny mi avevano fatto intravvedere in lei lo smalto delle eroine che l’avevano preceduta ma il finale non era riuscito a darmi alcun appagamento.
Credo fermamente (ed è un’opinione molto personale) che Jane Austen abbia scritto MP “per sottrazione”, cioè costruendo un monumento a tutto ciò che NON dovremmo essere.
Dopo alcune riletture, sto ancora cercando di capire se questo comprende anche Fanny, eroina vittoriosa e positiva, sì, ma in un contesto in cui niente e nessuno sembra evolvere, tanto meno il suo amato “antagonista”, Edmund. Quanto durerà questa sua vittoria?
Per questo fatico a vedere in lei, come indica Citati, un modello di femminilità – anzi, istintivamente mi viene da dire a tutte: non ispiratevi a Fanny Price, lei vince per se stessa e non per tutte noi.
Mansfield Park è un romanzo molto complicato, anzi, forse più che complicato è molto ambiguo. Per questo ogni volta che se ne parla si mette in luce qualcosa e si lascia in ombra qualcos’altro. L’articolo di Citati è sul versante di una lettura che potremmo chiamare “tradizionale” (molto simile, per esempio, a quella di Nabokov, e molto diversa da quella di Beatrice Battaglia). D’altra parte, proprio per l’ambiguità che lo pervade, ogni lettura è lecita, e il lettore che la pensa diversamente può sempre trovare qualcosa su cui riflettere.