Un cappellino di velluto nero

Nel lontano 1992, uno fra i maggiori critici letterari italiani, Pietro Citati, così scriveva di Jane Austen su Repubblica:

“Appena sfogliamo le lettere di Jane Austen ci sembra di ascoltare una conversazione: avvenuta quasi due secoli fa, in piccoli paesi dell’ Inghilterra del Sud, ma così chiara e nitida e luminosa, come se avvenisse in questo momento, nella stanza accanto alla nostra, tra due ragazze che si sono appena lasciate. Non c’è mai quell’impercettibile vetro, con cui la carta allontana e raffredda il corso delle parole. Per tutta la vita, Jane Austen e la sorella Cassandra (alla quale scrisse la maggior parte delle sue lettere) divisero la stessa stanza da letto; e passarono le giornate nella stessa sala da soggiorno. Secondo i famigliari erano molto diverse: “Cassandra aveva il merito di tenere il proprio comportamento sotto controllo, mentre Jane aveva la felicità di un temperamento che non chiedeva mai di essere comandato”. Si confidarono quasi tutto: si dissero ogni pensiero via via che nasceva; commentando tra loro ogni avvenimento del paese e della campagna. Appena la carrozza portava Cassandra a Kintbury o a Godmershan o a Manydown, Jane si metteva al tavolino, con la sua penna cedevole, e la calligrafia chiara come la mente bene ordinata. Scriveva come parlava: con la stessa velocità, la stessa intonazione, piccole risate e piccoli capricci e piccole fantasie e accenni di assennatezza precoce. Jane Austen non descriveva alla sorella i suoi pensieri e sentimenti, né parlava dei libri che aveva preso in prestito alla biblioteca circolante, trasformando le lettere in una specie di interminabile diario, come molte ragazze di quel periodo cominciavano a fare. Quando scriveva, Jane Austen non era mai sola (Lettere, introd. e commento di Malcolm Skey, trad. di Linda Gaia, Theoria, pagg. XL-294, lire 42.000). Qui parla un mondo compatto, foltissimo, solidale, come ormai non ne conosciamo più.

C’ è una intera famiglia: il padre e la madre, e gli otto fratelli, e le mogli e le zie e le prozie e i figli e le figlie di questi fratelli, e i parenti vicini e lontani, che abitano in castelli o in piccole case di campagna, o sono nelle Indie occidentali o orientali o percorrono l’ Inghilterra in carrozza, e gli amici e i cugini di questi parenti, che alla fine si sposano tutti fra loro, così che abbiamo bisogno di una carta geografica per addentrarci nell’ inarrestabile groviglio delle parentele. Sullo sfondo, c’ è un paese, che vive, dorme, chiacchiera, mangia, va in chiesa, si sposa, muore, cucina, va a spasso, – e noi ne sentiamo tutte le voci, come quelle di un’ arnia colorata e ronzante. Non crediate che Jane si accontentasse di raccontare i “grandi fatti” del paese: un vedovo si risposa, un bambino nasce, qualcuno muore. Specie negli anni giovanili, narrava tutte, tutte le cose che erano accadute a Steventon e persino a Bath, e anche qualcuna che avrebbe potuto accadere, o che forse non sarebbe accaduta affatto. Al centro dell’ arnia sta almeno per noi la famiglia Austen: una famiglia della gentry, nella quale molti inglesi e non inglesi hanno veduto come il simbolo dell’ Inghilterra moderna. Non erano ricchi: ma avevano alle spalle grandi famiglie aristocratiche, con grandi ville e grandi parchi – e mai, mai un Austen (come ci assicura il miglior biografo di Jane, Lord David Cecil, ultimo figlio del quarto marchese di Salisbury, in A portrait of Jane Austen, Constable 1978) avrebbe frequentato qualcuno uscito dalle deplorevoli famiglie borghesi di Charles Dickens o di George Eliot. Il padre amministrava con la medesima competenza le anime di Steventon, le pecore e i maiali che popolavano i duecento acri di Cheesedown e i piccoli allievi ai quali dava lezioni di cultura e di vita. I figli maschi lasciarono presto la casa; e dalle lettere avvertiamo ancora oggi, come in Anna Karenina, la vigile ed esclusiva presenza femminile che regolava lo spazio e il tempo – ordinava le stanze, comandava ai domestici, faceva le spese, preparava la cena, teneva i conti, curava i gesti e i sentimenti, vegliava a che persino l’ ombra del disordine restasse lontana da quelle mura armoniose. Se Cassandra sovraintendeva, Jane si occupava specialmente del té, della cantina, e del rifornimento di zucchero. Jane Austen era una “brunetta” luminosa, dal vivace colorito, e con vivaci occhi bruni. Forse una volta, per gioco, disse che il suo vero nome era Diana -: casta e fredda e pungente come Diana, e come lei innamorata della nitida luce lunare. La mattina presto, quando tutti erano ancora chiusi nelle loro stanze, faceva i suoi esercizi al piano: non aveva, a quanto sembra, né gusto né talento musicale, e non sapeva che molto lontano, in Austria, un vecchio musicista componeva quartetti e concerti che assomigliavano ai suoi romanzi. Dopo la colazione, cominciava a scrivere. Stava seduta davanti a una piccola scrivania di mogano, in una stanza di passaggio; e ogni volta che la porta scricchiolava annunciando l’ arrivo di una domestica o della sorella o di una nipote, nascondeva il foglio pieno di caratteri chiari nei cassetti o sotto la carta assorbente. Avrebbe potuto avere, credo, “una stanza tutta per sé”: ma forse voleva scrivere, come molti scrittori che ho conosciuto, nella stanza di passaggio, proprio perché la porta scricchiolava, passava la domestica e il nipote, si percepivano i suoni e gli odori, e lei non si sentiva esclusa dal cuore dell’ esistenza. Quando era tempo di uscire, le donne andavano a fare acquisti nel paese vicino – mancava il té o lo zucchero, o bisognava pensare ai regali per un matrimonio -; o passeggiavano per i sentieri e i boschi. La cena avveniva molto presto, tra le tre e le quattro. Infine cominciava la lunga serata, durante la quale qualcuno leggeva un libro a voce alta (talvolta un libro di Jane). Oppure si giocava a carte, sciangai, indovinelli o enigmi; e si conversava a lungo, interrompendo la lettura e il gioco. Non c’ era molto altro. C’ erano, certo, i vestiti. “Mi sono fatta fare il vestito nuovo, una tunica bianca tipo cotta davvero superba”: un “abito a ruota, con una giacchetta e il davanti a doppio petto, aperto di lato, e una trina della stessa stoffa, e le maniche semplici”. C’ erano sopratutto i cappelli, per i quali la giovane Jane Austen aveva una passione travolgente: cappellini di velluto nero, nastri color argento, pennacchi colori papavero (molto più eleganti delle nere piume militari); cappellini di paglia, di mussolina di cambrì, striscioline di velluto nero intorno alla testa; cappelli “di satin e merletto bianco con un fiorellino pure bianco che spunta dietro l’ orecchio sinistro”. Poi c’ erano i fiori, che rallegravano il cuore della giovane Diana: peonie, garofanini, aquilegia, lillà. C’ erano le torte di mele – , che sono “una considerevole parte della nostra felicità domestica”. C’ era un giovane innamorato, con una giacca troppo chiara, che imitava quella del giovane e ardente Tom Jones: il quale, probabilmente, una mattina di gennaio del 1796 si dichiarò a Jane ventunenne. C’ erano, infine, moltissimi balli. Lì, tutta la piccola società di Steventon, o quella più grande di Bath, si raccoglieva; forse non contava tanto il corteggiamento e le parole inebriate, quanto il fatto che quella società diversa si raccoglieva per una volta, sotto lo sguardo nitido che la fissava e la contemplava. Quando abbiamo finito di leggere queste lettere e le altre raccolte dal Chapman (Letters, Oxford University Press, 1952), ci chiediamo: “Ma Jane Austen, questa Diana settecentesca, era davvero una scrittrice?” oppure: “Come avrà potuto, questa luminosa brunetta, scrivere un capolavoro come Emma, e Persuasione, così intenso e doloroso?”. Nelle lettere troviamo un’ accettazione della realtà, assoluta, compatta e senza incrinature, come se Jane Austen fosse stata una pietra di Chawton o di Bath o un semplice elemento della sua famiglia (tra la domestica e il gatto) o la fetta di una profumata torta di mela, pronta a venire mangiata. Ora, non voglio negare che un romanziere debba, in primo luogo, accettare, aderire all’esistenza, essere luce, albero e passante: che la totale accettazione porti con sé, spesso, un’assoluta libertà intellettuale; e che il contrasto e la ribellione possano invece offuscare il dono dello sguardo. Ma ci colpisce che queste lettere non rivelino mai la traccia, l’ombra o il segno di una ferita. Mentre la letteratura moderna, della quale Jane Austen è una delle divinità protettrici, non ha mai saputo fiorire senza che nelle membra di un libro avvertiamo il sotterraneo propagarsi di una lacerazione. Se non percepiamo nessuna ferita, osserviamo invece una quantità di leggere correzioni, trasformazioni, o deformazioni, con le quali Jane Austen, anche nel suo epistolario, ritocca il reale: come uno di quegli artisti che si esprimono attraverso una serie di velature successive. Il primo di questi ritocchi è la discrezione. Non credo che si debba ricordare soltanto l’abitudine inglese allo understatement: o il fatto che Cassandra bruciò quella parte di lettere, che contenevano (o supponiamo che contenessero) segreti o verità personali. Quello della Austen è molto più che understatement: è una specie di eroica, ascetica cancellazione dell’ io. Nelle lettere lei non esiste, o non esiste quasi mai. Non c’ è mai una confessione o un cambiamento di tono: tanto che, malgrado la semplicità e la dolcezza, ci sembra più impenetrabile dei grandi artisti murati nel silenzio. La seconda correzione è più decisiva. Lo sguardo della Austen rivela una tranquillità costante e sistematica – che nessuno potrà mai dire con certezza se fosse naturale, o sgorgata da dolori, rinunce e assestamenti. Non c’ è protesta, né rancore, né malumore. Qualsiasi cosa la Austen guardi, prende lo stesso rilievo: tutto è infinitamente importante, e tutto non ha alcuna importanza. Non esistono scale e gerarchie: così che ogni cosa si perde nella stessa, stupenda e terribile, monotonia. Ma, tranne in rari momenti di noia, non c’ è la minima traccia di indifferenza. Mentre la Austen guarda, una specie di lieve, continua eccitazione, una gentile euforia esce dal cuore e dagli occhi, corteggia e avvolge le cose, colma il mondo di suoni, di colori e di significati.Imbevuto dalla luce interiore, tutto la incanta, tutto le piace: anche se, per caso, fosse una lunga parete bianca, dove si riflette soltanto la contentezza tranquilla dell’ anima. Non ho bisogno di aggiungere che questa felicità è, forse, la più profonda delle ferite, che può precipitare oltre ogni dolore, oltre ogni estasi: come non accadde mai alla Austen. La terza correzione riguarda il movimento. La Austen non condusse una vita immobile, sempre chiusa nella sua casa, come fece Manzoni, nella nevrotica ossessione che immobilizzò la sua maturità. Gli Austen erano sempre in moto; e una carrozza, ora a quattro ora a sei posti, li conduceva da Steventon a Rowling a Deane a Kintbury a Adlestrop a Harpsden a Godmershan a Bath a Ibthorpe a Dawlish a Manyodown a Lyme Regis a Stoneleigh Abbey a Southampton a Chawton a Londra: tra case e palazzi di fratelli, amici e parenti. Nella trascrizione che la Austen dà di questi viaggi, certo qualcosa succede. Non sempre il terreno è giustamente battuto, non sempre i cavalli sono buoni: qualche volta la strada è fangosa, un baule scivola dalla diligenza e sta per cadere, un nipote è costretto a sedere a cassetta, e la madre si stanca. Ma che importa? Il movimento non dà mai ansia, perché qualsiasi cosa accada, nelle lettere di Jane l’ ordine e l’ armonia sono sempre ristabiliti. Basta pochissimo. Ci si ferma mezz’ ora in un albergo, si beve una tazza di consommé o al massimo poche gocce di laudano, si assaggia una torta di ricotta, ci si distende su un letto; e il ritmo eguale e implacabile della vita riprende il sopravvento, si arriva in orario perfetto, e alle “otto di sera eravamo seduti davanti a uno splendido pollo arrosto”. La Austen è maestra in questi giochi di ritocchi e correzioni, condotti con pennelli sempre più invisibili su quei “pezzettini di avorio” (non più larghi di due pollici), che sono anche le sue lettere. Così, a poco a poco, costruisce, vivendo a Steventon e a Chawton, la forma mentale che sorregge i suoi romanzi. Chi potrebbe negare che guardi fuori da sé, con un divertimento che non si smentisce quasi mai? Seguendo i suoi sguardi, anche noi visitiamo le grandi o piccole case di campagna dell’ Inghilterra: cogliamo i gesti, guardiamo i vestiti, ascoltiamo le conversazioni, conosciamo le mode che passano, i colori dell’ estate e dell’ autunno, le rive di Bath, di Sanditon e di Eastbourne, i costumi dei paesi dell’ interno e quelli delle cittadine balneari. Di rado, la realtà ci ha tanto colmato di gioia. Ma, intanto, abbiamo compiuto un viaggio molto più profondo. Mentre credevamo di vivere fuori, non siamo mai usciti dalla mente di Jane Austen. Le forme, che abbiamo appena visitato, sono le belle forme del suo mondo interiore: case, giardini, gesti e vestiti stanno dentro di lei, come se lei non avesse mai alzato lo sguardo dal suo tavolino di mogano: e noi assistiamo lieti ai riflessi, alle corrispondenze, alle ironie che Jane Austen si compiace di giocare con se stessa, come la luce gioca con i colori. Se guardiamo un quadro di Raffaello, dimentichiamo che quello è Baldassarre Castiglione o quella è una contadina umbra e l’ altra in fondo una chiesa realmente esistita. Vediamo soltanto la luce dello spirito, che gioca con le sue forme, e si riflette in loro e si identifica con loro. Finora ho trascurato la più grande delle correzioni che la Austen apporta nelle sue lettere all’esistenza: la sistematica omissione e cancellazione della morte. Chiunque muoia, persino il padre amatissimo, questa morte viene anestetizzata, con una mano tanto soave quanto ferrea, tanto dolce quanto spietata: essa è l’ ombra, il tabu, che i vivi devono allontanare dallo sguardo, per poter soggiornare tra le musiche, le peonie e gli alberi, che rendono così piacevole la vita. Il morto non ha quasi sofferto (“relativamente parlando”), ha evitato una lunga malattia, se ne è andato quasi nel sonno; e poi ha condotto una vita felice e virtuosa, e poi un luogo l’ aspetta certamente lassù, nell’ Altro Mondo, un luogo che tutto lascia credere gli riserberà tè e torte di mele e suoni di cembalo e conversazioni ancora più squisite di quelle terrene. In queste lettere, c’è una sola vera tragedia: la morte degli alberi. Il 9 novembre 1800, mentre Cassandra era a Godmershan, una terribile tempesta di vento si abbatté sul giardino di Steventon. Di colpo, con uno strano schianto, un olmo crollò sul viale. Un altro, vicino allo stagno, crollò in mezzo a un filare di castagni e di abeti rossi, abbattendo un abete, falciando la cima di un altro, e spogliando due castagni di diversi rami. E poi, più lontano, altri olmi vennero abbattuti o irreparabilmente guastati. La tragedia appartiene al mondo vegetale, non al nostro. Con un’arte ancora più elegante e sottile, la Austen cercò di eludere la propria morte. Nulla è più discreto e toccante della rappresentazione che diede di sé negli ultimi due anni della sua vita. La rappresentazione fallì, l’elusione non fu completamente possibile: anche se, temo, nessuno di noi, nemmeno dotato di un coraggio più grande (cosa rarissima) di quello della Austen, riuscirà mai a morire come se non stesse morendo. Dapprima lievi, i dolori cominciarono all’inizio del 1816: dolori alla schiena, debolezza, perdita di peso, disturbi gastrointestinali, macchie sulla pelle, tensione nervosa – ciò che fece congetturare, ai medici moderni, un caso di morbo di Addison. Quando la Austen andò a trovare dei vecchi amici, e luoghi che aveva amato, gli amici la trovarono abbattuta. Visitava quei luoghi, e parlava dei suoi ricordi, in maniera molto singolare – “come se non si aspettasse di vederli mai più”. Ci fu un’ intermissione. Alla fine del 1816 e all’ inizio del 1817, in alcune lettere ai nipoti, il tono muta. Una gioia, un’ euforia, un’ eccitazione vitale la assalirono all’ improvviso, proprio mentre cominciava a spegnersi: le sembrò di non essere una zitella di quarantun anni, ma la ragazza che tanto tempo prima aveva ballato con spirito e membra leggere, civettando con un giovanotto dalla giacca bianchissima come quella di Tom Jones. “Ora – scriveva al nipote – verrà fuori tutto – i tuoi delitti e le tue miserie, quante volte sei andato a Londra con la diligenza postale per sperperare cinquanta ghinee in una taverna”. “Tu – scriveva alla nipote – sei un modello di fatuità e di saggezza, di banalità e di eccentricità, di tristezza e di allegria… Chi può tenere il passo con le continue variazioni del tuo estro, i capricci del tuo gusto, le contraddizioni dei tuoi sentimenti?… Oh, che perdita sarà, quando ti sposerai! Sei troppo simpatica da nubile, troppo simpatica come nipote. Ti odierò, quando abbandonerai le tue deliziose elocubrazioni, per adagiarti negli affetti coniugali e materni”. Proprio in quei mesi cominciò a scrivere Sanditon: il suo più incantevole inno alle superfici dell’ esistenza. Poi le bisbigliò: ‘ Desidero solo la morte’ La remissione fu breve. Prima della fine di marzo, abbandonò Sanditon. Si sentiva troppo debole e esausta per camminare: prendeva aria in un carretto trascinato da un asino; e poi rinunciò anche a un esercizio così lieve. Stava a letto, o nel salotto, in vestaglia, distesa sopra un sofà improvvisato, formato con tre seggiole disposte l’ una vicino all’ altra. Quando le nipoti Anna e Carolina la visitarono, le fece sedere attorno al fuoco: era pallidissima e la voce era estremamente debole, quasi un sussurro, e dopo poco dovette congedarle. Aveva compreso che, davanti a lei, non c’ erano più libri da leggere e scrivere, né té né provviste di vino e di zucchero. Ma cercava di restare, o almeno di apparire, sé stessa. Appena poteva, si alzava e passeggiava da una stanza all’ altra: scherzava, “divertiva gli altri anche nella loro tristezza”, cercando di allontanarsi e di scomparire a poco a poco dietro le lievi quinte dell’ esistenza, senza che la morte la notasse, o senza farsi segnare dalla morte. Era grata ai suoi, specie a Cassandra, per la sua “tenera, vigile, infaticabile” attività di infermiera. Il 27 maggio, scrivendo di nuovo al nipote, rivelò uno strano sentimento di colpa. “Se mai ti ammalerai, ti auguro di ricevere le stesse cure che sono state dedicate a me, ti auguro di poter avere il dono prezioso di amici solleciti e comprensivi, che allevino i tuoi mali, e ti auguro di possedere – come certo sarà – la benedizione più importante di tutte, la consapevolezza di non essere indegno del loro amore. Io non l’ ho sentita”. Dunque si sentiva indegna della vita che aveva vissuto: degli affetti che l’ avevano avvolta e che non aveva meritato. Forse si sentiva indegna anche di una morte che assomigliava troppo a quella di tutti gli altri essere umani? Nella terza settimana di luglio, peggiorò; e i fratelli le dissero che non aveva molto da vivere. L’ ultimo giorno, il 18 luglio 1817, si sentì meglio, e scrisse dei versi. Poi svenne. Cassandra le chiese se desiderasse qualcosa: “Solo la morte” bisbigliò; e “Dio, dammi pazienza. Prega per me. Oh, prega per me”; e affondò il capo nelle spalle della sorella. Aveva corretto e eluso, ritoccato e omesso tante cose della vita, ma non aveva potuto eludere i dolori e le preghiere troppo umane di chi muore.

Fonte: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/05/21/un-cappellino-di-velluto-nero.html
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mmagine inserita da JASIT.

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4 commenti

  1. Che tu sappia l’articolo tratto dalla Repubblica è a sua volta tratto dal saggio Ritratti di donne di Pietro Citati o è una gemma isolata?
    Io ho trovato citato (nel saggio di Roberto Bertinetti: Ritratti di signore, Saggio su Jane Austen) l’articolo del 23 agosto 1983 apparso sul Corriere della Sera “L’occhio di Jane sulla tazza da tè” ma risulta introvabile: avete mezzi ed effetti speciali?
    aspetto fiduciosa, grazie

  2. Se può interessare vorrei segnalare che questo articolo apparso su Repubblica è un estratto del saggio Ritratti di donne di Pietro Citati, tratto dal cap. su Jane Austen e corrispondente al paragrafo intitolato Le lettere della Austen. L’altro paragrafo su Jane Austen, del libro citato, “Gli incanti del cuore” è quello pubblicato un po’ riadattato con il titolo L’occhio di Jane sulla tazza di tè sul Corriere della Sera. Rimane fuori un sottoparagrafo dedicato a Sanditon che ovviamente è molto interessante perché ne sottolinea le potenzialità.

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