Cecilia e (non solo) Orgoglio e pregiudizio

 

L’articolo originale è apparso sulla rivista di Jane Austen Society of Italy “Due pollici d’avorio”, numero 11 (2019), pagg. 42-51. Per richiedere l’intero numero, scrivere a info@jasit.it.


 

Frances (Fanny) Burney (1752-1840) fu una delle più famose scrittrici dell’epoca. Le sue opere sono citate diverse volte nelle lettere e nei romanzi di Jane Austen, e Cecilia (1782) non fa eccezione. La troviamo in una lettera del 24 gennaio 1809 a Cassandra, in cui è citata la protagonista del romanzo, Cecilia Beverley:

Prenditi cura della tua preziosa persona, non affaticarti troppo, ricorda che le Zie Cassandra sono scarse quanto le signorine Beverley.[1]

nella famosa difesa del genere “romanzo” in L’abbazia di Northanger (cap. 5), insieme a un altro libro di Burney, Camilla e a Belinda di Maria Edgeworth:

“E che cosa state leggendo signorina?” “Oh! È solo un romanzo!” risponde lei, mentre posa il suo libro con affettata indifferenza, o con momentanea vergogna. “È solo Cecilia, o Camilla, o Belinda”, o, in breve, solo un’opera in cui si dispiegano gli enormi poteri dell’intelletto, in cui la massima conoscenza della natura umana, la più felice descrizione delle sue sfaccettature, la più vivida dimostrazione di spirito e intelligenza, sono trasmesse al mondo nel linguaggio più ricercato.

e nel cap. 20 di Persuasione, dove Anne Elliot pensa a Miss Larolles (un personaggio del romanzo) quando tenta di avvicinarsi al capitano Wentworth durante il concerto che la rende consapevole della gelosia del capitano nei confronti di Mr. Elliot:

a causa di altri spostamenti, e di qualche sua piccola manovra, Anne fu in grado di mettersi molto più vicina all’estremità della panca di quanto lo fosse prima, molto più a portata di mano di qualcuno che passasse. Non lo poté fare senza paragonarsi a Miss Larolles, l’inimitabile Miss Larolles, ma comunque lo fece, e con effetti non molto più felici.

C’è anche qualcosa di specifico che lega Cecilia alle opere austeniane, anzi, al suo lavoro più famoso, Orgoglio e pregiudizio. La prima stesura del romanzo di Jane Austen, completata nel 1797, era intitolata First Impressions, ma nel 1801 ne era stato pubblicato un altro, di Margaret Holford, con un titolo identico. Il nuovo titolo fu probabilmente ispirato proprio da Cecilia, dove, nel capitolo finale, uno dei personaggi, il dottor Lyster, riassume la morale della vicenda ripetendo tre volte i due termini, stampati sempre in lettere maiuscole:

Tutta questa sfortunata faccenda […] è stata il risultato dell’ORGOGLIO e del PREGIUDIZIO. […] Ciononostante, rammentate questo: se all’ORGOGLIO e al PREGIUDIZIO dovete le vostre disgrazie, il bene e il male sono così meravigliosamente bilanciati che all’ORGOGLIO e al PREGIUDIZIO dovete anche la loro fine.

Nel romanzo ci sono anche molti punti che un lettore austeniano non può fare a meno di notare, in quanto fanno venire in mente circostanze analoghe sia in Orgoglio e pregiudizio che in altri romanzi. Sono ovviamente solo delle suggestioni per le quali non c’è alcuna prova di riferimenti diretti, ma nulla vieta di immaginare che alcune scene o brani di conversazione del romanzo di Burney siano rimasti in mente alla Austen lettrice, e siano poi riemersi, consapevolmente o meno, nella Austen scrittrice.
Nel capitolo 1 del Libro V, per esempio, Mr. Meadows, un personaggio molto caratterizzato come dandy alla moda che finge di essere annoiato da tutto e da tutti, dice qualcosa circa il ballo:

… girandosi all’improvviso verso Cecilia, senza quei convenevoli che di solito rinnovano una precedente conoscenza, sia con le parole che con un inchino, disse bruscamente, “Amate ballare, signora?”
“Sì, moltissimo, signore.”
“Sono molto lieto di sentirlo. Avete quindi qualcosa per alleviare l’esistenza.”
“A voi non piace?”
“Ballare? Oh, terribile! perché sia stata adottata una cosa simile in un paese civilizzato non riesco a capirlo; di sicuro è un esercizio barbaro, che trae origine dai selvaggi. Non credete sia così, Miss Larolles?”
“Santo cielo, no”, esclamò Miss Larolles, “vi assicuro che mi piace più di qualsiasi altra cosa; non conosco nulla di così delizioso; giuro che non potrei vivere senza; mi annoierei talmente da non riuscire a immaginarlo.”

con parole molto simili a quelle di Mr. Darcy in risposta a una domanda di Sir Lucas nel capitolo 6 di Orgoglio e pregiudizio:

“Che passatempo incantevole per i giovani, Mr. Darcy! D’altra parte non c’è nulla come il ballo. Io lo considero come una delle principali raffinatezze della società civile.”
“Certo, signore; e ha anche il vantaggio di essere in voga tra le società meno civili del mondo. Qualunque selvaggio può ballare.”

Nel capitolo 4 del Libro VII c’è la proposta di matrimonio di Delvile a Cecilia, e l’intera scena, compresa la lunga lettera di spiegazioni di Delvile del capitolo successivo, ha molti punti in comune con la dichiarazione di Darcy e il rifiuto di Elizabeth Bennet nel capitolo 34 di Orgoglio e pregiudizio, anche in questo caso con una lettera di spiegazioni nel capitolo successivo. Le motivazioni del rifiuto di Elizabeth non sono le stesse di Cecilia, anche se hanno comunque a che fare con l’orgoglio di famiglia di chi fa la proposta, ma le sensazioni di quest’ultima dopo la lettura della lettera sono espresse con parole non molto diverse da quelle del romanzo austeniano:

Cecilia lesse e rilesse quella lettera, ma con un animo talmente turbato da renderla a malapena in grado di valutarne il contenuto. Frase dopo frase i suoi sentimenti variavano, e la sua determinazione cambiò; di volta in volta, la sincerità delle sue suppliche la addolciva fino a farla diventare arrendevole, l’ammissione dell’orgoglio della famiglia la irritava fino al rancore, e la confessione del suo rammarico la sconfortava. Aveva intenzione, con una risposta immediata, di inviare un rifiuto definitivo, ma nonostante le prove a suo sfavore, e gli argomenti poco convincenti, c’era qualcosa nella conclusione della lettera che faceva vacillare la sua fermezza.
(Cecilia, Libro VII, cap. 5)

In questo stato d’animo sconvolto, con pensieri che non riusciva a fissare su nulla, continuò a camminare; ma non servì a niente; mezzo minuto dopo la lettera fu di nuovo aperta, e cercando come poteva di ritrovare la padronanza di se stessa, …
(Orgoglio e pregiudizio, cap. 36)

Analoghe considerazioni si possono fare con le parole di giustificazione di Delvile confrontate con quelle di Darcy:

“E perché avrei dovuto ingannarvi? Perché fingere di pensare con piacere, o anche con indifferenza, a un ostacolo che ha avuto così a lungo il potere di rendermi infelice?”
(Cecilia, Libro VII, cap. 6)

“Queste aspre accuse avrebbero potuto essere represse, se avessi nascosto con maggiore accortezza le mie resistenze, e vi avessi lusingata a credere di essere spronato da un’inclinazione senza riserve, incontaminata; dalla ragione, dalla riflessione, da tutto.”
(Orgoglio e pregiudizio, cap. 34)

Ci sono poi degli altri piccoli particolari. Nel capitolo 7 del Libro VIII il dottor Lyster riferisce a Cecilia ciò che gli aveva detto Mr. Delvile:

“Mi ha ordinato di dirvi che uno dei due, lui stesso o voi, non dovrà più vedere più il figlio.”

parole del serissimo e solenne Mr. Delvile, che diventano comiche in bocca a Mr. Bennet:

“Hai di fronte una triste alternativa, Elizabeth. Da oggi dovrai essere un’estranea per uno dei tuoi genitori. Tua madre non vorrà più vederti se non sposi Mr. Collins, e io non vorrò più vederti se lo sposi.”
(Orgoglio e pregiudizio, cap. 20)

Nel capitolo 10 del Libro VIII Mr. Albany racconta le vicissitudini amorose che lo avevano portato alla pazzia e poi a una vita di rinunce e di altruismo, parlando di una donna amata, perduta e poi ritrovata nel peccato:

“In quella miserabile condizione, indifesa e biasimata, maltrattata da queste mani selvagge e insultata da questa bocca inumana, la lasciai, in cerca del malvagio che l’aveva rovinata; ma costui, codardo quanto traditore, si era nascosto. Pentito della mia furia, mi affrettai di nuovo da lei; una volta diventato più calmo mi vergognai della mia crudele fierezza, e mi commossi al ricordo della dolcezza del suo dolore; tornai quindi per darle sollievo… ma se n’era di nuovo andata! terrorizzata da ulteriori offese si nascose a tutte le mie ricerche. Vagai invano per due lunghi anni in cerca di lei, incurante dei miei affari e di tutto ciò che non fosse quella ricerca. Alla fine, la vidi… a Londra, da sola, che camminava in strada a mezzanotte… la segui pieno di timore… e la seguii fino a una casa infame!”

una storia che ha diversi punti in comune con il racconto del colonnello Brandon nel capitolo 31 di Ragione e sentimento:

“Il mio primo pensiero, una volta arrivato, fu naturalmente cercarla; ma la ricerca fu inutile quanto triste. Non riuscii a trovarne le tracce al di là del suo primo seduttore, e c’erano tutte le ragioni per temere che l’avesse lasciato solo per sprofondare ancora di più in una vita di peccato. […] Alla fine, tuttavia, e dopo sei mesi che ero in Inghilterra, riuscii a trovarla. La premura per un mio vecchio domestico, che da allora era caduto in disgrazia, mi portò a fargli visita in una casa di reclusione, dove era rinchiuso per debiti; e là, nello stesso posto, in una situazione analoga, c’era la mia sventurata cognata. Così cambiata… così spenta… consumata da terribili sofferenze di ogni genere!”

Nel capitolo 6 del Libro 10 Belfield parla a Cecilia della sua ricerca di un’occupazione che potesse interessarlo e pronuncia parole che, sia pure nella loro genericità, sembrano avere un diretto riferimento a Ragione e sentimento:

“Cielo! che vita di sforzi continui tra cuore e cervello! che guerra crudele, innaturale, tra intelletto e sentimenti!”

C’è poi il rapporto di incondizionata fiducia e adorazione di Henrietta Belfield nei confronti di Cecilia, un’amicizia che non può non richiamare alla mente quella tra Harriet Smith ed Emma Woodhouse (e l’assonanza tra i nomi delle due ragazze potrebbe anche non essere un caso). Nel capitolo 6 del Libro IX Henrietta descrive a Cecilia ciò che sente verso Delvile:

“Intendevo dire, signora, se credete che io dimentichi quanto lui sia al di sopra di me. Ma non lo faccio proprio mai, perché lo ammiro soltanto per la sua bontà nei confronti di mio fratello, e non penso mai a lui, se non, qualche volta, per paragonarlo ad altri che incontro, perché me li rende talmente disgustosi che non vorrei incontrarli mai più.”

e la descrizione dei sentimenti di Harriet nei confronti di chi Emma crede che sia Frank Churchill, per poi, diverso tempo dopo, scoprire che la sua pupilla stava parlando di Mr. Knightley, non è molto diversa:

“Oh! Miss Woodhouse, credetemi, non ho la presunzione di credere… Non sono davvero così folle. Ma per me è un piacere ammirarlo a distanza, e pensare alla sua infinita superiorità su tutto il resto del mondo, con la gratitudine, lo stupore e la venerazione che, specialmente da parte mia, sono così appropriate.”
(Emma, cap. 40)

Henrietta, come Harriet, è insicura, incerta su qualsiasi decisione, e spesso cerca di affidarsi ciecamente ai consigli di Cecilia, con un atteggiamento analogo a quello di Harriet con Emma:

“Oh, carissima, carissima Miss Beverley!” esclamò Henrietta, sempre più agitata, “che cosa posso mai dirgli, datemi un consiglio, vi prego, datemi un consiglio, perché non riesco a immaginare nemmeno una parola!”
(Cecilia, Libro IX cap. 8)

“Be’”, disse Harriet, ancora in attesa; “be’… e… e che cosa devo fare?” […] “Sì. Ma che cosa devo dire? Cara Miss Woodhouse, datemi un consiglio.” […] “No, no; cioè, non ho intenzione… che cosa devo fare? Che cosa mi consigliate di fare? Vi prego, cara Miss Woodhouse, ditemi che cosa dovrei fare.”
(Emma, cap. 7)

Per ultima, un’altra piccola curiosità, sempre legata a Orgoglio e pregiudizio, ma stavolta non a Cecilia, ma a Evelina, il primo romanzo di Fanny Burney. Il 1° novembre 1797 il padre di Jane Austen, il reverendo George Austen, scrisse a Thomas Cadell, un editore di Londra che nel 1782 aveva pubblicato Cecilia, proponendogli un manoscritto della figlia (First Impressions, ovvero la prima stesura di Pride and Prejudice):

Sono in possesso di un Romanzo Manoscritto, composto di tre Voll. all’incirca della lunghezza di Evelina di Miss Burney. Dato che sono ben consapevole di quanto sia importante che un’opera del genere faccia la sua prima Comparsa sotto l’egida di un nome rispettabile mi rivolgo a voi. Vi sarò molto obbligato quindi se vorrete cortesemente farmi sapere se siete interessati a essere coinvolti in essa; A quanto ammonteranno le spese di pubblicazione a rischio dell’Autore; e quanto sareste disposti ad anticipare per l’acquisto dei Diritti, se a seguito di un’attenta lettura, fosse da voi approvata. Se la vostra risposta sarà incoraggiante vi spedirò l’opera.

Il goffo tentativo del reverendo Austen non ebbe successo, ma, visto l’effetto successivo, non possiamo certo rammaricarcene.

Ma Fanny Burney, oltre a essere stata un’importante scrittrice inglese, ebbe anche una vita piena e interessante. Abbiamo a disposizione i suoi diari e moltissime lettere, e, a conclusione di questa escursione nel suo romanzo più legato a Jane Austen, voglio riportare uno dei suoi scritti biografici più famosi. Si tratta di una parte della lettera scritta alla sorella Esther tra il marzo e il giugno del 1812, nella quale l’autrice descrive, tra le altre cose, l’intervento per un tumore al seno subito a Parigi il 30 settembre dell’anno precedente. Un’operazione chirurgica eseguita ovviamente senza alcuna anestesia, descritta con crudo realismo dalla paziente.
La lettera è molto lunga, dodici pagine, e la traduzione riportata sotto è dalle pagine 8-11.

Salii quindi sul letto senza farmi pregare, M. Dubois mi sistemò sul materasso e mi stese sul volto un fazzoletto di lino. Era però trasparente, e attraverso di esso vidi che il letto fu circondato all’istante dai 7 uomini e dalla mia infermiera. Rifiutai di essere tenuta, ma quando, nitido attraverso il lino, vidi il luccichio del nitido acciaio, chiusi gli occhi. Non volevo consegnare a una paura scomposta la vista della terribile incisione. Seguì un profondissimo silenzio, che durò per qualche minuto, durante il quale immagino che si scambiarono disposizioni tramite dei segni ed esaminarono il da farsi. Oh, che orribile intervallo! Non respiravo nemmeno, e M- Dubois cercò invano una qualche pulsazione. Quella pausa fu alfine rotta dal Dr. Larry, che, con un tono di solenne malinconia, disse “Qui me tiendra ce sein?” [Chi mi tiene questo seno?] Nessuno rispose, almeno non a parole, ma ciò mi scosse dal mio stato di passiva sottomissione, poiché temevo che ritenessero infettato tutto il petto… e lo temevo anche troppo a ragione… poiché, sempre attraverso il lino, vidi alzarsi la mano di M. Dubois, mentre l’indice prima descrisse una linea diritta dalla sommità alla base del petto, poi una croce e quindi un cerchio, segno evidente che tutto doveva essere asportato. Agitata da quel pensiero, alzai il volto, gettai il velo, e, in risposta alla domanda “Qui me tiendra ce sein?” gridai “C’est moi, Monsieur!” [Io, signore!], misi la mano sotto di esso e spiegai la natura dei miei dolori, che nascevano in un solo punto, anche se balzavano poi dappertutto. Fui ascoltata con attenzione, ma in assoluto silenzio, e poi M. Dubois mi rimise come ero prima, e, come prima, mi stese il fazzoletto sul volto. Come furono vane, ahimè, le mie parole! subito dopo vidi il dito fatale descrivere la croce… e il cerchio. Allora disperata, spaventata e rassegnata, chiusi di nuovo gli occhi, rinunciai a osservare, a resistere, a interferire, e decisi mestamente di capitolare del tutto.
La mia carissima Esther, e tutti i mei cari ai quali lei comunicherà quest’aria[2] dolente, si rallegreranno nel sentire che quella decisione, una volta presa, fu mantenuta scrupolosamente, nonostante un terrore che supera qualsiasi descrizione, unito a dolori strazianti. Ma… quando l’orribile acciaio affondò nel petto… facendosi strada attraverso vene… arterie… carne… nervi… non ebbi bisogno di incoraggiamento nel dare libero sfogo alle urla. Cominciai con un grido che durò senza sosta per tutto il tempo dell’incisione, e quasi mi stupisco che non mi risuoni ancora nelle orecchie! talmente straziante era il tormento. Una volta aperta la ferita, e ritirato lo strumento, il dolore non accennò a diminuire, poiché l’aria insinuatasi all’improvviso in quelle parti così delicate sembrava come una massa di pugnali minuscoli ma affilati e appuntiti, che laceravano gli orli della ferita; ma quando avvertii di nuovo lo strumento, che stava descrivendo una curva incidendo contropelo, se così si può dire, mentre la carne resisteva in modo così energico da opporsi e stancare la mano dell’operatore, costretto a cambiare la destra con la sinistra, allora credetti davvero di stare per morire. Non cercai più di aprire gli occhi, serrati in modo così ermetico e saldo che le palpebre sembravano tutt’uno con le guance. Quando lo strumento fu ritirato per la seconda volta pensai che l’operazione fosse conclusa… Oh no! quell’orribile taglio riprese subito… peggio che mai, per separare la parte inferiore, la base della terribile ghiandola, dalle parti alle quali aderiva. Qualsiasi descrizione sarebbe vana… e ancora non era tutto concluso; il Dr. Larry fece solo riposare la mano, e poi… Oh cielo! sentii il coltello torturare… raschiare l’osso del petto! Fatto questo, mentre restavo preda di un muto e totale supplizio, sentii la voce di Mr Larry (tutti gli altri mantenevano un silenzio mortale), con un tono quasi tragico, chiedere a tutti i presenti di chiarire se restasse ancora qualcosa da fare, o se ritenessero conclusa l’operazione. La riposta generale fu sì, ma il dito di Mr Dubois, che sentivo letteralmente aleggiare sulla ferita, anche se non vedevo nulla, e se lui non stava toccando nulla, talmente sensibile era quell’indescrivibile percezione, tutta rivolta a una qualche ulteriore mossa… e di nuovo cominciò quel raschiare! e, dopo, il Dr Moreau credette di discernere un atomo trasgressore, e ancora, e ancora, M. Dubois esigeva atomo su atomo. Mia carissima Esther, non per giorni, non per settimane ma per mesi non sono riuscita a parlare di questa terribile faccenda senza riviverla direttamente! Non ho potuto pensarci impunemente! Sono stata male, mi sentivo turbata da un’unica domanda… anche adesso, 9 mesi dopo che si è conclusa, mi fa male la testa nel raccontarla! e questo doloroso racconto, che ho iniziato almeno 3 mesi fa, non oso leggerlo, rivederlo o rileggerlo, tanto penoso è ancora il ricordo.
Per concludere, il male era talmente in profondità, il caso talmente delicato, e le precauzioni necessarie per prevenire una ricaduta così numerose, che l’operazione, inclusa la preparazione, è durata 20 minuti! un lasso di tempo che, per sofferenze così acute, è stato insopportabile. Comunque, ho sopportato la cosa con tutto il coraggio che potevo usare, e non mi sono mossa, non li ho fermati, non ho fatto resistenza né rimostranze, non ho detto una parola… salvo un paio di volte, durante la preparazione, per dire “Ah Messieurs! que je vous plains!” [Ah, signori! come mi dispiace!] poiché ero davvero consapevole dei sentimenti riguardanti ciò che tutti loro avevano visto delle mie sofferenze, anche se le mie parole erano principalmente… molto principalmente rivolte al Dr Larry. Eccetto questo, non ho pronunciato nemmeno una sillaba, salvo, quando hanno così spesso ricominciato, gridare “Avertissez moi, Messieurs! Avertissez moi!” [Avvisatemi, signori! Avvisatemi!]. Credo di essere svenuta due volte, o almeno, ho due complete lacune nei ricordi dell’operazione, che mi impediscono di collegare ciò che è successo. Una volta finito tutto, mi dissero che mi sarei potuta mettere a letto, e mi sentii così totalmente priva di forze che fui costretta a farmici portare, e non riuscivo nemmeno ad alzare le mani e le braccia, che pendevano come se fossi priva di vita, mentre la faccia, come mi disse l’infermiera, era completamente priva di colore. La necessità di muovermi mi fece riaprire gli occhi, e allora vidi il mio buon Dr Larry, pallido quasi come me, con il volto striato di sangue e un’espressione che mostrava dolore, apprensione, e quasi orrore.
Una volta a letto, il mio povero M. d’Arblay, che dovrebbe scriverti anche lui il suo racconto di questa giornata, venne da me, e poi il nostro Alex.

La pagina 8 della lettera. La parte tradotta inizia alla riga 6 dal basso: “I mounted, therefore, unbidden, the Bed stead…”

L’intervento ebbe un esito molto positivo, visto che la paziente visse per altri ventinove anni, e morì a Bath il 6 gennaio 1840, alla veneranda età di 88 anni.
C’è anche un ulteriore collegamento austeniano relativo a Fanny Burney, visto che venne sepolta a Bath nella chiesa di St. Swithin, e la sua lapide tombale nel giardino della chiesa è vicina a quella del reverendo George Austen, padre di quella collega scrittrice nata 23 anni dopo di lei e morta 23 anni prima.

 


Note

[1] Le traduzioni delle lettere e delle opere di Jane Austen e di Cecilia sono mie, reperibili nel sito jausten.it.
[2] Qui Burney, cresciuta in un ambiente in cui la musica era pane quotidiano, usa il termine “ditty”, che ha diversi significati, tutti comunque riconducibili a una composizione musicale.

Print Friendly, PDF & Email

Potrebbe interessarti...

Che cosa ne pensi?